Alfonso Marchione, foggiano, è un maresciallo infermiere dell’Esercito. La sua è una esperienza particolare. Perché dopo una parentesi come volontario, si è laureato in Infermieristica e ha deciso di lasciare il “camice bianco” per diventare un “cittadino con le stellette”, coniugando così le due passioni della sua vita. Ora si trova in Afghanistan, impegnato nella sua prima missione all’estero.
Ha preferito la divisa del maresciallo al camice da infermiere . Perché questa scelta?
“Sin da bambino vedevo le Forze armate come un sogno, era fantastico pensare che qualcuno potesse dedicare se stesso e la propria vita al fine di difendere il nostro Paese. Durante le scuole superiori ho deciso di intraprendere il corso di laurea in infermieristica conservando sempre il desiderio di far parte dell’Esercito italiano. L’anno scorso, l’Esercito ha bandito il primo concorso per marescialli a nomina diretta con la specializzazione sanità e così mi sono buttato a capofitto sui libri a studiare per poter vincere il concorso. Dopo varie prove sono arrivato all’esame orale, la fase finale del concorso. Quando ho letto la mail di convocazione per i vincitori non potevo credere ai miei occhi. In realtà non è stata, quindi, una scelta tra la mimetica e il camice poiché il maresciallo infermiere racchiude in sé sia l’essenza dell’essere militare che quella di essere infermiere”.
Ci racconta la sua giornata di lavoro in Afghanistan?
“Ogni mattina mi domando come sarà la mia giornata e mi auguro di essere in grado, assieme agli ufficiali medici, di affrontare i casi clinici che si presenteranno. Mi sveglio al mattino presto e insieme ai colleghi prendo parte alla colazione. Successivamente insieme valutiamo quello che sarà il piano di lavoro”.
La vigilia prima della partenza come si vive?
“Eccitazione a mille e notti insonni. Il giorno prima di partire i pensieri viaggiano ancor più velocemente. Diverse volte mi sono chiesto se dimenticavo di salutare qualcuno, se avessi potuto passare un giorno in più in famiglia, con la mia fidanzata o con i miei amici. Tante volte mi sono interrogato su cosa mi aspettasse in teatro operativo, quali pazienti avrei trovato e se sarei stato in grado di assolvere il mio compito. Ma le ore e i giorni sono passati rapidi ed è arrivato il momento di caricare i bagagli sul mezzo diretto all’aeroporto”.
Prima un anno da volontario poi quattro. L’Esercito è diventata la sua grande famiglia. Un pregio e un difetto di questa esperienza?
“Sì, ho fatto parte dell’Esercito dapprima come volontario in ferma prefissata di un anno, in seguito come volontario in ferma quadriennale e in fine come maresciallo in servizio permanente. L’Esercito dà a tutti i giovani una grande possibilità, ovvero, crescita personale e professionale che viene data ad ogni singolo soldato. In questa grande famiglia si conoscono migliaia di colleghi, ognuno con la sua storia, ognuno con qualcosa da portare con se per la vita. Difetti non ne trovo”.
Un consiglio da dare a chi volesse ripercorrere il suo cammino professionale?
“Impegnarsi; la costanza, la caparbietà, il desiderio di voler appartenere all’Esercito sono elementi essenziali per far parte di questa grande famiglia. Sono stato sempre del parere che se le possibilità sono poche, allora bisogna impegnarsi di più per raggiungere l’obiettivo. E se al primo tentativo l’obiettivo non viene raggiunto, perché non riprovarci?”.
A casa come hanno preso la scelta di abbandonare il camice per la divisa?
“I miei genitori mi hanno sempre sostenuto nelle scelte; quando mi sono laureato in infermieristica erano fieri di me e quando hanno saputo che avrei lavorato come infermiere nell’Esercito lo sono stati ancora di più”.
Cosa differenzia all’estero il soldato italiano nel confronto con quelli di altri Paesi?
“Lavoriamo tutti per il medesimo obiettivo. Durante questi giorni ho potuto costatare sempre di più quanto sia bello nella diversità di nazionalità scoprirsi simili”.
Giornali e televisioni si occupano poco delle missioni internazionali. Eppure in certi teatri operativi siamo il secondo Paese per numero di militari impiegati. Si avverte questo senso di solitudine quando è all’estero?
“I giornalisti ogni giorno lavorano in modo tale che i lettori ed i telespettatori conoscano ciò che accade nel mondo. E’ un lavoro delicato ed importantissimo che, non di rado, li espone a seri rischi personali. Nel poco tempo libero a disposizione cerco comunque di tenermi informato. Ad essere sincero non percepisco alcun senso di solitudine, anzi, credo che i giornalisti grazie al loro lavoro riescano sempre a fare sentire a tutti noi sempre vivo l’affetto e l’orgoglio dei nostri connazionali in Patria”.
Una volta tornati a casa quanto è difficile riabituarsi alla quotidianità?
“É la mia prima esperienza all’estero. Dopo varie settimane di lavoro in sincronia con i colleghi si è venuto a creare un forte spirito di corpo che mi ha avvicinato a chi mi sta intorno e sarà sicuramente dura separarci. Una volta rientrato in Italia tornerò a contatto con il mio lavoro da infermiere in corsia, rivedrò i miei affetti e continuerò a coltivare le mie passioni. Non credo sarà difficile riabituarsi alla quotidianità, credo invece che quest’esperienza servirà molto alla mia crescita personale e rimarrà positivamente indelebile nella mia vita”.
Un episodio, una storia, un personaggio da raccontare ai nostri lettori che faccia capire qual è e come viene svolto il lavoro dei militari italiani in Afghanistan?
“Un giorno un bambino è stato accompagnato dal padre nella nostra base, era impaurito e non la smetteva di piangere, è bastato fare un disegno con gli occhi grandi e una bocca sorridente su un guanto di lattice gonfiato a palloncino per far sì che il bimbo si calmasse. Dopodiché è stato visitato e ha iniziato il suo percorso di guarigione. Dopo quel giorno, ogni volta che lo incontriamo ci sorride e si sente a suo agio. Questo mi riempie il cuore di soddisfazione e fa si che la mia motivazione diventi sempre più salda”.
La prima cosa che farà una volta in Italia?
“Andrò a salutare mia nonna che mi ha già promesso un piatto di orecchiette “come solo lei sa fare”.
Come spiegherebbe a un giovane di oggi i concetti del senso del dovere e della patria?
“Nella nostra era siamo troppo spesso abituati ad avere tutto, subito e con il minor sforzo possibile. Ma per ottenere grandi risultati è necessario spendersi al massimo. Il senso del dovere è alla base di ogni organizzazione efficiente ed è un pilastro su cui si fonda la Forza armata. Abnegazione, impegno e sacrificio sono richiesti dalla nostra missione”.
Gli italiani riscoprono il tricolore quasi sempre in occasione degli appuntamenti sportivi. Per lei cosa rappresenta?
“Gli atleti italiani ci donano la possibilità di gioire e a volte anche di soffrire durante gli eventi sportivi, tuttavia il tricolore per me è molto di più perché ho giurato assoluta fedeltà alla bandiera, alle istituzioni ed al mio Paese. Il tricolore rappresenta il motivo per cui oggi io e miei colleghi siamo in Afghanistan e con fierezza lo portiamo esposto sulla spalla e inciso nel cuore.”
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