Riportiamo un’analisi della letteratura pubblicata sulla fonte scientifica Italian Journal Of Nursing in relazione all’assistenza infermieristica alla persona morente in ospedale e nei percorsi di cure palliative, nonché le difficoltà, le sfide e i limiti che vengono percepiti dagli Infermieri.
La palliazione rappresenta, infatti, un’ambito di cura che, purtroppo, negli ultimi anni è in continua crescita.
Per cure palliative s’intende “l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici” (Legge n.38/10 Art. 2). Si rivolgono principalmente alle persone giunte alla fase terminale di ogni malattia cronica ed evolutiva, ma non solo, si rivolgono anche a chi ancora riceve terapie volte alla risoluzione della malattia, accostando ai trattamenti la gestione del sintomo dolore.
L’intento principale è quello di assicurare la miglior qualità di vita possibile al malato, senza accelerarne né ritardarne la morte. Prevedono di fornire sollievo dal dolore e dai sintomi e di assicurare una presa in carico globale del malato che tenga conto degli aspetti psicologici, sociali e spirituali dell’assistenza oltre che di quelli fisici (Istituto Superiore di Sanità, 2018).
Ad oggi, in Italia, i servizi della Rete locale di cure palliative si trovano a doversi confrontare ogni giorno con la necessità di fornire risposte nuove e adeguate ai bisogni di una popolazione sempre più anziana, colpita sempre più frequentemente da malattie croniche, spesso complesse, che fanno emergere in misura maggiore rispetto al passato bisogni di cure palliative. Gli operatori sanitari, in ospedale e sul territorio, non sono ancora sufficientemente preparati a riconoscere ed affrontare per tempo questi bisogni e ad offrire un intervento precoce, integrato e complesso, che sia anche efficace nel prendersi carico, certamente, delle condizioni cliniche ma anche dei problemi psicosociali e delle fragilità che possono colpire i malati e le loro famiglie (Ministero della Salute, 2019).
In pochi casi vengono espressamente richieste cure domiciliari o presso servizi specializzati in cure palliative per la gestione di malattie croniche, per la maggior parte delle situazioni si ricorre all’ospedale (Toscani et al., 2005). Nel 2015, in Italia, il 14% dei pazienti con diagnosi primaria di neoplasia è deceduto in una struttura ospedaliera, con un’alta variabilità regionale e con percentuali che variano dal 4% della Campania e Sicilia, al 32% del Veneto e valori di mediana pari al 16%. Per l’anno 2016 il rapporto rimane invariato al 14% e si riconferma l’alta variabilità regionale (Ministero della Salute, 2019). Dallo studio “Eolo”, il cui obiettivo fu quello di indagare come le persone muoiono negli ospedali italiani, emergono diversi dati riguardanti la gestione dei sintomi e del dolore dei pazienti terminali in ambiente ospedaliero.
Per quanto riguarda i pazienti più severamente colpiti da malattia, nel 75% dei casi i sintomi sono risultati mal controllati durante gli ultimi giorni di vita. Il 72% dei pazienti ha sperimentato sensazioni di fatigue accompagnati da anoressia, il 45% ha accusato episodi di dispnea severa e il 42% ha accusato dolore severo ma solo al 52% di questi è stato garantito un trattamento analgesico, da cui solo il 19% dei pazienti ha tratto beneficio. La richiesta per quanto riguarda l’intervento da parte di un terapista del dolore è stata inoltrata solo per il 7% dei pazienti.
Nonostante la difficoltà dimostrata nel trattare efficacemente i sintomi e lo scarso uso di analgesici, quando è stato chiesto agli infermieri di giudicare come fossero qualitativamente le cure fornite ai pazienti durante il fine vita, nell’88% dei casi sono state valutate come “buone” o “molto buone”. Secondo l’autore il giudizio espresso dagli infermieri potrebbe essere influenzato dalla cultura ospedaliera che spesso sovrastima la tecnica e la cura interventistica attribuendo un ruolo secondario alla qualità della vita. Lo stesso studio dimostra che in ambiente ospedaliero gli interventi per prolungare la vita vengono messi in atto anche quando la diagnosi infausta e la morte sono chiaramente annunciate.
Per quanto riguarda i pazienti considerati in fase terminale di malattia, nel 9% dei casi sono state effettuate trasfusioni di emocomponenti, nel 71% sono stati somministrati fluidi per via endovenosa e nel 57% dei casi sono stati effettuati esami di routine. Nel 7% è avvenuta l’inserzione di un catetere venoso centrale, nell’8% è stata effettuata la dialisi emoperitoneale e nel 4% dei casi è stata comunque effettuata la chemioterapia. Tutti questi interventi sono stati messi in atto fino a 24 ore prima dalla morte (Toscani et al., 2005).
Le criticità ascrivibili al contesto italiano sono sovrapponibili a realtà presenti anche in altri Paesi. In uno studio di Filierman et al. (2019), che va ad indagare l’identificazione della “fase palliativa” da parte di medici e infermieri in reparti di medicina specialistica di sei differenti ospedali Olandesi, emerge che nella pratica quotidiana, medici e infermieri spesso non avviano un programma di cure palliative fino a quando la morte del paziente è imminente e le condizioni cliniche sono ormai scadenti. Di conseguenza, l’identificazione della necessità di ricevere cure palliative avverrà in ritardo, impedendo ai pazienti e ai loro parenti di beneficiare dei vantaggi di un’integrazione precoce (Filierman et al., 2019). In ambiente ospedaliero spesso si verifica una contrapposizione tra interventi propriamente “curativi”, che mirano alla risoluzione completa dello stato morboso e le cure “palliative”.
L’orientamento di queste ultime richiede una certa flessibilità, perché si passa da una visione focalizzata sulla medicalizzazione delle cure ad un concetto multidisciplinare di “prendersi cura” (Borbasi et al., 2005). Gli interventi messi in atto durante il fine vita sono spesso eccessivi, escludono la vicinanza di amici e familiari e aumentano la sofferenza dei malati (Sallnow et al., 2022). Implementare i servizi di cure palliative, soprattutto domiciliari, potrebbe ridurre il numero delle morti in luoghi inappropriati come unità operative di medicina e chirurgia, dove l’esperienza per quanto riguarda i problemi correlati al morire è molto limitata (Filierman et al., 2019).
Nel 2022 il report stilato dalla Lancet commission on the value of death evidenzia che con l’avvento della pandemia di Covid-19 la situazione è tutt’altro che migliorata. L’attenzione è stata concentrata esclusivamente sulle cure intensive, lasciando da parte la gestione del dolore e del fine vita. In questo scenario la morte e la sua gestione sembrano appartenere sempre più ai professionisti sanitari e alle istituzioni invece che alle famiglie e alla comunità, riducendo anche la familiarità con la morte e la sua comprensione a livello sociale (Sallnow et al., 2022).
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