La Chiesa Italiana ha lanciato una sfida per riuscire, almeno in parte, a coprire la carenza di infermieri italiani ossia “Far arrivare in Italia un migliaio di infermieri l’anno assunti dai Paesi esteri sedi di università cattoliche e comunità missionarie“.
Ancora una volta sembra che le istituzioni non abbiano compreso appieno la radice del problema, ovvero gli stipendi che ormai sono i più bassi in Europa e, difficilmente, si riesce ad arrivare a fine mese con l’incremento del costo di vita degli ultimi anni. Stipendi fermi al palo e infermieri che ormai preferiscono scappare all’estero dove vengono valorizzati sia dal punto di vista economico che della crescita professionale con master e corsi che, la maggior parte delle volte, vengono interamente corrisposti dal datore di lavoro.
In un comunicato ufficiale pubblicato sul sito della FNOPI si parla di questo nuovo progetto, “Samaritanus Care”: “Il Progetto Samaritanus Care nasce per rispondere ad una carenza strutturale di infermieri che si è andata aggravando nel corso degli anni. È il primo progetto della Fondazione Samaritanus, costituita per volontà delle Associazioni nazionali ARIS e UNEBA in qualità di Fondatori, con il patrocinio dell’Ufficio Nazionale per la pastorale della salute della Conferenza Episcopale Italiana, e sostiene le misure per lo sviluppo di politiche attive del lavoro.
Attraverso convenzioni con università, o eventuali entità formative equipollenti, nei diversi continenti, il Progetto Samaritanus Care si propone di invitare infermieri disposti a lavorare in Italia nelle strutture associate ad Aris o Uneba, le due maggiori associazioni di categoria delle strutture non profit dei settori sanitario e sociosanitario cattoliche e di ispirazione cristiana, con centinaia di enti iscritti in tutta Italia. Da qui il primo obiettivo del Progetto: promuovere l’assunzione in Italia di infermieri.
L’obiettivo è quello di dar vita a un “sistema circolare” che porti professionisti sanitari in Italia negli anni successivi al conseguimento del diploma universitario in modo tale da consentire il soddisfacimento della grande richiesta di personale, ma che rappresenti contestualmente un arricchimento di competenze che permetta ai lavoratori di tornare nel proprio paese con un alto valore aggiunto che incentivi così altri lavoratori a fare lo stesso innescando un circolo virtuoso per tutti i paesi interessati.
Con lo scopo di reperire candidati sono state stabilite collaborazioni con università e istituti in Nigeria, Tanzania, Repubblica Democratica del Congo, Camerun, Argentina, Perù e India. I referenti della Fondazione nei vari Paesi, di concerto con le Università, selezionano i candidati e provvedono ad iscriverli sul portale web di gestione del Progetto.
Il Progetto Samaritanus Care supporta i professionisti sanitari nei vari processi burocratici a partire dal Paese di origine fino all’arrivo in Italia, organizzando, se necessario, corsi di intensivi certificati di lingua italiana e corsi accademici integrativi. Il fine ultimo è l’ottenimento dell’equipollenza di studi di diplomi e lauree conseguite in paesi extra-UE nonché il riconoscimento dal Ministero della Salute e l’iscrizione all’OPI.
In meno di un mese dall’apertura delle iscrizioni, diverse decine di strutture si sono registrate sul sito della Fondazione Samaritanus, manifestando il proprio interesse per il Progetto Samaritanus Care.
Il progetto è stato concepito nel 2021 in piena pandemia e messo a punto col varo del “Samaritanus Care” nella speranza di coprire le carenze infermieristiche nostrane alle prese con una vera e propria “voragine” assistenziale destinata a toccare picchi spaventosi entro il 2029.
Una situazione illustrata nel corso della conferenza stampa da Beatrice Mazzoleni, segretaria nazionale Fnopi, secondo la quale nei “prossimi 4 anni l’attuale quadro di circa 460 mila infermieri perderà oltre 100 mila unità”. Un perdita secca che “già dal 2022 grava sul nostro sistema sanitario con una carenza di circa 65 mila infermieri mancanti”. Ma che, avverte Mazzoleni, è destinata “ad aggravarsi sempre di più” a causa di pensionamenti, dimissioni, trasferimenti all’estero, dove i trattamenti economici sono notoriamente superiori a quelli riconosciuti al personale infermieristico italiano.
“Si potrebbe anche prevedere – Mazzoleni ha aggiunto – che chi accetta di venire in Italia possa completare qui la sua formazione professionale, compresa la conoscenza della lingua”.
D’accordo padre Virginio Bebber, presidente Aris, che, oltre a ricordare che il Progetto Samaritanus Care “è una risposta della Chiesa italiana per far fronte a una carenza infermieristica destinata a gravare pericolosamente sui nostri pazienti”, ha proposto un vero e proprio Erasmus per i giovani laureandi nelle università cattoliche estere per permettere loro di laurearsi in Italia, imparando quindi bene la lingua ed essere pronti per l’inserimento nelle istituzioni sanitarie italiane.
“Samaritanus Care vuole dare una risposta concreta e possibilmente risolutiva a queste problematiche”, spiega don Angelelli, aggiungendo che l’iniziativa, “accolta con favore anche dal ministro della Salute Orazio Schillaci”, prevede l’individuazione di infermieri laureati nelle università cattoliche sparse nel mondo da far venire in Italia per “essere assunti nelle istituzioni socio-sanitarie cattoliche” per un periodo di almeno tre anni. Particolare di non poco conto, “la preparazione, specialmente lo studio della lingua italiana, e le spese organizzative necessarie per individuare i candidati e farli trasferire nel nostro Paese, saranno a totale carico delle istituzioni sanitarie di destinazione”, assicura il Direttore dell’Ufficio per la Pastorale della Salute della Cei.
“Questa iniziativa è un segno di speranza. Così come l’Aris, abbiamo fornito la massima disponibilità dell’Uneba, per un percorso che metta al centro l’uomo e la cura del malato. Ai giovani infermieri che arriveranno in Italia sarà offerta l’opportunità di lavorare in istituti di eccellenza ed acquisire competenze professionali di alto livello, che potranno mettere a frutto, non solo nei nostri ospedali, ma soprattutto quando torneranno nei loro Paesi”.