Infermieri stremati: “Lasciamo il lavoro per non ammalarci”

Un vero e proprio sfogo quello pubblicato da Bologna Today che fa di molto riflettere sulla difficile situazione che gli infermieri stanno affrontando negli ultimi anni in Italia. Dichiarazioni nelle quali tutti gli infermieri che prestano servizio nel pubblico e nel privato possono facilmente riconoscersi.

Renato Mazzucca infermiere di pronto soccorso dell’ospedale di San Giovanni in Persiceto, afferma: “il tema dello stipendio sicuramente c’è, anche se i problemi vanno oltre. Certo, noi siamo pagati decisamente meno che nel resto d’Europa, con una distanza che arriva fino a seicento, settecento euro mensili di differenza. Ma il problema principale è la qualità del lavoro.

Noi non siamo messi nelle condizioni di esprimere al meglio la nostra professionalità. Ci sono turni che iniziano alle 7 del mattino e finiscono alle 20, con venti minuti nel mezzo per poter mangiare un panino. E anche all’interno del turno stesso si lavora spesso con meno personale del necessario, e viviamo con una costante pressione.

Ci sono poi le doppie notti consecutive o le giornate di riposo tra un turno e l’altro che diventano giornate di lavoro. Il modo che abbiamo di lavorare impatta enormemente sulla qualità sia del lavoro ma anche della vita delle persone. Siamo consci che a livello nazionale ci siano enormi problemi nel reclutamento di nuovi infermieri e infermiere, e infatti le nostre non sono polemiche sterili. Quello che chiediamo è almeno un’organizzazione che non sia così impattante per le vite delle persone. Che ci vogliano più infermieri lo sanno tutti, è un fatto oggettivo: siamo pochi.

La mancata organizzazione è data principalmente da questo. Però bisogna anche capire quale sia la visione: importiamo infermieri dall’estero, come è stato ad esempio durante il Covid. Bene, e poi? I colleghi e le colleghe che andranno in pensione come saranno sostituiti? Questo è un problema reale”.

Dario Antichi, infermiere dell’Ospedale Sant’Orsola, riprende il tema del collega, affermando: “Quello che ci abbatte di più sono le condizioni di lavoro. Noi abbiamo visto crescere le nostre competenze, le nostre responsabilità, le nostre mansioni. A fronte di questo non c’è stato nessun riconoscimento, né negli stipendi né nelle prospettive di carriera o pensionistiche, senza considerare che i nostri salari hanno perso, negli anni, il proprio potere d’acquisto. Figuriamoci la frustrazione che provano questi professionisti. Questo tipo di vita non è più sostenibile. Le persone lasciano il lavoro perché hanno paura di ammalarsi.

Rimanendo a Bologna, si evidenzia una certa tendenza delle persone che tornano a casa propria, specialmente al Sud Italia, dove la vita costa meno. Esiste infatti una grossa barriera rappresentata dal problema della casa. I nostri redditi stanno diventando insufficienti per potersi permettere l’affitto di una casa. Un infermiere arriva a guadagnare sui 1.800 euro. Da questi bisogna togliere almeno 850 euro per un bilocale più le bollette, la spesa per mangiare e i costi di vita. Il problema è talmente grande che molte persone non hanno più il progetto di venire qui a lavorare. Magari si preferisce rimanere nel privato a casa propria, al Sud, dove ci sono gli affetti e la famiglia che possono essere d’aiuto, oltre ad un costo della vita molto minore rispetto a ciò che è diventata Bologna.

A Bologna gli infermieri sono abituati ad avere almeno tre, quattro mesi all’anno ‘fuori turno’. Significa che non sanno che cosa andranno a fare il giorno dopo. Non si può andare avanti cercando il coordinatore alle cinque del pomeriggio per sapere cosa fare il giorno dopo, e poi fare turni in cui dobbiamo prenderci cura di venti pazienti quando la letteratura ci dice che dovrebbe esserci un infermiere per sette, otto pazienti al massimo. E poi la qualità del servizio: alla decima ora di turno in pronto soccorso quale qualità di assistenza possiamo garantire?

Noi facciamo dei lavori delicatissimi e spesso maneggiamo dei revolver. In day hospital oncologico mettiamo su le chemioterapie più diverse, con pazienti tutti diversi, con quei ritmi, con quella pressione e con quella fatica. Bisogna veramente pregare affinché non accada nulla.

Di fatto il sistema si regge sui rientri dai riposi, che tra l’altro non sono neanche indennizzati. Si va al lavoro quando si dovrebbe riposare perché è così che funziona. Uno dovrebbe saper dire di ‘no’ e dedicarsi alla propria vita, a fare la spesa, ai propri figli, semplicemente a staccare. E invece no. È una crociata per missionari”.